I Gruppi Operativi nelle istituzioni Pubbliche. L. Buongiorno


RELAZIONE INTRODUTTIVA AL PRECONGRESSO NAZIONALE
“I GRUPPI OPERATIVI NELLE ISTITUZIONI PUBBLICHE”

Laura Buongiorno

Questo precongresso nazionale è in vista di quello internazionale che si terrà a Madrid nel Febbraio 2006 “Attualità del gruppo operativo”.
Il precongresso dei gruppi operativi nelle Istituzioni pubbliche nasce dalla convinzione che la nostra linea di pensiero, che ci permette di concepire in maniera diversa “l’Istituzione” quando è praticata attraverso il gruppo operativo, proprio perché è pensata non come modello rigido bensì soggetta a modifiche, ci impone di ritrovarci per confrontarci sull’attività di gruppo e sulle esperienze vissute.

Nel tentativo di pensare a questo lavoro mi sono resa conto della vastità e complessità di aspetti che la concezione operativa introduce: accennerò solo ad alcuni di questi. Premessa dovuta per giustificare perché parlerò di alcuni processi senza approfondirli anche per ragioni di tempo.

Farò riferimento alla situazione dell’organizzazione dei servizi sociali e sanitari in Italia che mai come negli ultimi anni sono divenuti oggetto di istanze legislative che hanno via via dilatato il campo di intervento, ridefinito gli obiettivi e le risorse differenziate e “specializzato“ i profili professionali degli operatori coinvolti.

Tutto questo chiama in causa i servizi e la loro organizzazione, gli operatori, le loro metodologie operative, così che il momento della formazione acquista un ruolo centrale nella realizzazione del “nuovo”.
Per chi lavora nei servizi viene proposta una formazione che risponda alla necessità di preparare professionalmente gli operatori per interpretare e rispondere ad una domanda sociale sempre più complessa ed esigente e a bisogni individuali sempre più differenziati.
Le risposte ad una domanda di aiuto, da parte dell’utenza, vanno pensate e articolate per capire a cosa si vuole formare, chi si deve formare, attraverso quali percorsi e strategie.
Chi è impegnato nella formazione è quindi chiamato a formulare proposte e ipotesi di lavoro: “formarsi a sapere” e soprattutto “pensare” a cosa è già stato fatto e sperimentato.
Storicizzare diventa un momento fondamentale per capire da dove si è partiti, come si è proceduto, cosa si può immaginare di raggiungere.
Occorre, a mio avviso, partire dalla formazione, ossia dal pensiero, dalla conoscenza, nella convinzione che ricomporre frammenti di conoscenza e di azione significa avvicinarsi alla complessità, poiché il processo di semplificazione inevitabilmente riduce, censura, elude aspetti della realtà.
Si tratta di aprirsi e formarsi ad una conoscenza complessa in grado di produrre un pensiero complesso. Vale a dire che occorre, in questo cambiamento, dis-apprendere il nostro rapporto con il sapere per imparare a pensare la complessità: si pensi al rapporto allievo/docente, allievo/allievo, allievo/conoscenza, docente/conoscenza : dimensioni relazionali dove entrano in gioco non solo fattori razionali ma anche affettivi di accettazione/rifiuto, piacere/dispiacere, dove viene recuperata la dimensione “umana” della conoscenza. Così la formazione diventa momento in cui “si apprende a pensare”, a costruire delle idee su di noi e gli altri.
Ma per imparare a pensare ci vuole un metodo, una teoria attraverso cui costruire una tecnica, che individui un percorso possibile, una strategia da seguire.
La proposta sembra ci venga offerta dalla psicologia sociale analitica, sviluppatasi in Argentina intorno agli anni ’30 ad opera di Pichon Rivière e successivamente portata avanti da J.Bleger e A.Bauleo.
Si tratta di una psicologia sociale che individua le sue radici nella psicoanalisi freudiana, ma che incontra nel suo percorso l’epistemologia, la sociologia, la linguistica, l’antropologia, ma anche tutta quella conoscenza “sommersa” che nasce dall’esperienza quotidiana di singoli e gruppi.
Pichon Rivière sviluppa una psicologia sociale dove il centro del discorso è la relazione individuo-società, dove i due termini non sono astratti ma sempre in una dimensione di interscambio continuo.
Questa relazione individuo-società per Pichon Rivière e per Armando Bauleo, così pure per Bleger, passa attraverso il “gruppo” (familiare, di appartenenza, scolastico, sociale, comunitario) vale a dire che “si può stabilire un legame tra sociale e individuale solo passando attraverso il gruppo”.
La psicologia sociale di P. Rivière rompe gli schemi della psicologia sociale nord americana (Lewin) che aveva prodotto un pensiero sull’uomo isolato dal suo contesto sociale: l’individuo, chiamato in laboratorio e lì studiato al di fuori delle relazioni con il mondo in cui è vissuto e si è sviluppato.
Ma soprattutto la psicologia sociale di P. Rivière non distingue più gruppi primari carichi di affettività da gruppi secondari carichi di razionalità.
Per P.Rivière, Bleger e Bauleo ogni gruppo, ogni relazione mette in gioco elementi tanto razionali quanto affettivi ed è all’interno di questa relazione dialettica e storica che vanno riconsiderate la salute e la malattia.
Psicologia sociale analitica infine perché, in quanto al metodo, rimanda alla psicoanalisi, in quanto al pensiero e azione rimanda ad una concezione dell’individuo, quindi del gruppo come soggetto in grado di autodeterminarsi e di consapevolizzarsi.
Per P. Rivière ogni esperienza concreta se opportunamente pensata, può innescare meccanismi di comprensione dei conflitti e problemi, in quanto prospettiva di cambiamento . Così per P. Rivière anche l’apprendimento acquista questo significato e potenzialità: la possibilità di imparare e pensare a partire dal gruppo considerato come elemento ontologico della vita dell’uomo
La discriminazione per noi è fondamentale per la libertà di pensiero. Noi pensiamo che nell’attività di prevenzione sociale sia fondamentale che le persone imparino a pensare liberamente, a vedere le differenze come risorsa e non come limite. La nostra preoccupazione non è tanto quella che si imponga o meno la concezione operativa nei servizi, quanto quella che gli operatori lavorino con meno ansia, superando i conflitti e le contraddizioni che insorgono nella vita e nel lavoro.
Nei gruppi uno degli interrogativi più frequenti che ricorre è se il gruppo è un gruppo di formazione, di apprendimento o terapeutico. Noi portiamo avanti una vecchia idea di P. Rivière per cui terapia e apprendimento sono le due facce di un unico fenomeno. Quando parliamo di formazione facciamo riferimento alla concezione operativa di gruppo: informazione e gruppo.
Ma come poter parlare di  queste esperienze gruppali? Non è facile trasmettere quello che succede all’interno di ogni situazione gruppale.
Nascono interrogativi su come strutturare una didattica.
Il passaggio dalla scuola di psichiatria ad una scuola di psicologia sociale ha fatto cambiare la prospettiva teorica: come rivolgere lo sguardo alla vita quotidiana per osservare meglio le circostanze o le condizioni dell’ammalarsi in una logica di “prevenzione”. Pratiche che si sono ampliate fino a includere diversi tipi di processi: da quello assistenziale a quello valutativo, dal preventivo a quello della trasmissione, dal terapeutico all’organizzativo.
Per quanto riguarda il gruppo , oggi la situazione è a partire da una triangolarità: gruppo- compito- coordinatore.
Quando il gruppo inizia a riunirsi è solo un raggruppamento, ma quando comincia a porre in movimento i legami, il compito inizia a vedersi e a sentirsi in un’altra maniera.
Questa affettiva è la parte più difficile, perché la tendenza del gruppo è quella di burocratizzarsi, di cristallizzarsi, perdendo di vista il compito e la creatività. La coordinazione segnala gli ostacoli e i blocchi affettivi che ostacolano il compito per facilitare il passaggio da raggruppamento a gruppo, interpretando il latente rispetto al manifesto del gruppo. L’assenza di uno di questi tre elementi è un’altra cosa, perché la dinamica dei gruppi operativi è possibile comprenderla solo a partire da questo “triangolo”.
L’idea del processo gruppale è strutturata, complicata. Non è lineare. Possiamo parlare di un ritmo (passato, presente, futuro), di uno spazio (esterno- interno), con situazioni vissute o fantasmi che rendono possibile o impediscono qualsiasi atto creativo intorno al compito. Quante volte il gruppo ripete ciò che ha sentito o pensato in un’altra situazione senza accorgersi che quel pensiero è scaturito dal “hic et nunc” del lavoro gruppale !
Per concludere mi sembra importante aggiungere che la presenza di istituzioni non è solo esterna ai gruppi, è anche interna: allora il processo gruppale e la triade di funzioni devono essere rivisti includendo appunto la presenza dell’istituzione stessa.


 

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