C.O.G. y Acogimiento Familiar. F. Milano


Concezione operativa di gruppo ed Affido Familiare

Fiorenza Milano

 

Dal diario di Giulia madre affidataria: 18 settembre 2000

Accompagno Dario ad un incontro con una educatrice che lo porterà in visita alla madre. Dario è un po’ taciturno, sembra nervoso, mi pare anche stanco. Gli auguro una buona giornata e lo lascio con l’educatrice. A mezzogiorno mi viene incontro con un faccino teso, evita di guardarmi: è molto stanco. Indossa una giacca a vento blu e quando gli dico che è una bella giacca, con un filo di voce mi dice che gliela ha portata la mamma. Fa caldo ma non oso chiedergli di togliersi la giacca. Tornando verso casa Dario è proprio giù e quando gli chiedo se si sente triste sembra che abbia una gran voglia di piangere anche se si controlla. Lo abbraccio. La mamma gli ha dato anche un libro, Zanna Bianca, ed un caleidoscopio.
Arrivati a casa Dario scende a giocare in giardino con Francesca e Giorgio ed io approfitto per lavargli la giacca a vento che è molto sporca. Nelle tasche trovo un fazzoletto e delle briciole gialle che, dall’aspetto, mi sembrano pastiglie. Deduco anche dalle dimensioni dell’indumento che probabilmente la giacca è di sua madre e quando Dario rientra sembra contento che la giacca sia stesa assieme a tutta l’altra biancheria di casa. Verso le 14.00, vedendolo sempre più sbattuto, gli prendo la temperatura….Ha trentasette gradi e mezzo di febbre.

Il diario di Giulia fa emergere gli elementi principali dello strumento dell’affido familiare: «la temporalità, il diritto del bambino alla propria famiglia, i compiti della famiglia affidataria e le relazioni essenziali e fondamentali con la famiglia di origine» (Milano, 2003).
Specie in passato, l’affido familiare si è presentato come uno strumento di intervento psicosociale solo parzialmente esplorato nei suoi aspetti teorici e negli effetti psicodinamici. L’approfondimento delle sue tematiche richiede però un inquadramento, cioè un dispositivo di lavoro coerente ed efficace per descrivere i processi che lo caratterizzano e ne delimitano il campo di applicazione.
Per rispondere, attraverso l’affido, ai problemi del disagio minorile, alle multiproblematicità delle famiglie a rischio e alle nuove conflittualità poste dal fenomeno emergente dell’emigrazione minorile è necessario sviluppare una metodologia appropriata attraverso un inquadramento teorico rigoroso.
Enrique Pichòn-Riviere, psicoanalista argentino, avviò intorno agli anni ’50 in America Latina un movimento scientifico che pro dusse un modello di lavoro, un apparato per pensare le dinamiche della comunicazione nei gruppi e i meccanismi profondi dell’apprendimento e degli ostacoli costituiti dalle resistenze al cambiamento nell’elaborazione della stereotipia. Josè Bleger e Armando Bauleo svilupparono successivamente in Europa la Concezione Operativa di Gruppo apportando contributi originali nell’ambito della sua applicazione e concettualizzazione.
Utilizzo il punto di vista di questi autori nell’interpretazione delle problematiche specifiche dell’affido familiare perché ritengo che offra delle nozioni utili ed efficaci per agevolarne la comprensione e l’approfondimento.
Bauleo definisce l’affido familiare come un nuovo oggetto clinico intendendo sottolineare così la novità di uno strumento, pensato come dispositivo di intervento sul disagio minorile, che spinge ad individuare nuove strategie cliniche. L’affido familiare, infatti, in tale prospettiva, si concretizza come un compito. Circoscrivere il compito dell’affido, stabilirne i tempi e lo spazio, individuare i ruoli dei vari protagonisti (minore – famiglia affidataria – famiglia d’origine – servizi) appaiono le coordinate in grado di emancipare questo intervento da mera pratica psicosociale a pertinente e appropriata metodologia di lavoro.
Lo stralcio del diario di Giulia mette in evidenza la particolare posizione in cui si trova il bambino in affido a volte stretto tra il “ conflitto di lealtà” verso la sua famiglia d’origine e preoccupato per la “ doppia appartenenza”, come direbbero Leon e Rebecca Grinberg, che la situazione di affido scatena.   Gli operatori devono comprendere, infatti, che l’intervento di affido è un’intervento che contiene elementi di traumaticità e che la sua utilizzazione ed applicazione prevede una attenta valutazione diagnostica della situazione di rischio in cui si trova il minore.

     Il lavoro degli operatori è, dunque, quello di permettere l’elaborazione di una doppia appartenenza con i sentimenti e le emozioni connesse a questa situazione. Nel caso dei minori stranieri la doppia appartenenza diventa ancora più complessa, perché non coinvolge solo l’ambito familiare ma anche quello linguistico, culturale e sociale.
Nell’affido familiare, oltre al minore, anche la famiglia affidataria e la famiglia d’origine si trovano a gestire cambiamenti e modificazioni all’interno delle reti intersoggettive familiari. I nuovi vincoli complessificano il rapporto genitoriale e di filiazione che ordinariamente e comunemente viene basato sulla consanguineità e sull’indiscutibile naturalità dei legami di sangue considerati come unici garanti del buon funzionamento familiare.
Con l’affido familiare si entra in una dimensione psicologica e funzionale, nella quale il ruolo biologico non è la condizione sufficiente ed indispensabile per garantire la crescita e la protezione del minore. In alcune situazioni, e per fortuna solo in alcune situazioni specifiche e complesse, funzione e ruolo genitoriale risultano dissonanti. Confusione, fragilità e senso di proprietà dei figli mettono in crisi la crescita dei componenti della famiglia. Spezzare dunque la «cultura familistica» (Castegnaro, 2003) per allargare ad altre famiglie, alla comunità i compiti di accudimento ed educativi può prevenire una prognosi infausta della patologia familiare ed individuale.
Per rappresentare un’esperienza creativa, l’affido familiare deve tener conto della complessità della dinamica inconscia che si viene a dispiegare a partire dalla disposizione della triangolazione: famiglia affidataria – bambino – famiglia d’origine.

La funzione della famiglia è, quindi, di servire da contenimento e protezione per il soddisfacimento delle parti più immature, primitive e narcisistiche della personalità, ma nella direzione dello sviluppo delle parti più mature utili per uscire all’esterno.
Se la famiglia non si predispone come un depositario affidabile per la differenziazione e l’autonomia verso un percorso di indipendenza, ma trattiene vischiosamente i suoi componenti impedendone la crescita psicologica, si instaura la cosiddetta simbiosi patologica. Per crescere c’è bisogno, nella prima infanzia, di persone adulte che svolgano due funzioni fondamentali: servire da depositari delle parti più primitive della personalità e permettere la discriminazione e l’interiorizzazione delle esperienze. A volte nell’infanzia dei bambini affidati manca una figura genitoriale di riferimento duraturo. Il problema della carenza affettiva assume allora un significato particolare perché se l’affetto e le cure non mancano, può mancare la continuità e la stabilità di un’esperienza con una sola persona. Nella vita di questi minori vi sono situazioni drammatiche di trascuratezza, abuso, psicosi e tossicodipendenza dei genitori, condizioni e situazioni che non permettono al bambino un vincolo simbiotico con un adulto su cui contare, che agisca come un io supplettivo in grado di far fronte agli impulsi avidi e distruttivi tipici delle prime fasi della vita.

«Gruppo operativo e gruppo familiare sono suscettibili di una stessa definizione: raggruppamento di persone che stanno insieme in costanza di tempo e spazio e articolate per mutua rappresentazione interna che si propongono implicitamente o esplicitamente un compito che costituisce il suo fine. Nel gruppo familiare alle costanti di tempo e spazio aggiungiamo i legami di parentela. Il compito del gruppo familiare è la socializzazione del soggetto fornendogli una cornice ed una base adeguate per raggiungere un adattamento attivo alla realtà in cui si modifica il contesto in un permanente gioco dialettico»  (Pichòn-Riviere, 1986).
Questa descrizione articolata della famiglia aiuta ad entrare maggiormente in quella che è la specificità della funzione della famiglia affidataria: «la socializzazione del soggetto, fornendogli una cornice ed una base adeguate». La socializzazione avviene attraverso il superamento della posizione simbiotica indiscriminata all’interno del gruppo familiare e l’attraversamento delle angosce di base confusionali, depressive e persecutorie rintracciabili in ogni percorso evolutivo umano.
Ogni famiglia, nel suo ciclo vitale, attraversa fasi di cambiamento che necessariamente scatenano ansie e sentimenti controversi: l’adolescenza, che segna il passaggio dal ruolo di figlio al ruolo di adulto, e la vecchiaia, caratterizzata dalla perdita del ruolo operativo, si prefigurano come momenti naturali di trasformazione e cambiamento di ciò che precedentemente era già configurato all’interno della famiglia. Spesso questi passaggi non vengono vissuti a causa della negazione del passaggio del tempo: non si accettano le trasformazioni sopravvenute. E dunque i compiti familiari non vengono adeguatamente orientati e definiti in funzione dell’effettiva fase evolutiva della famiglia.
E’ necessario che il gruppo familiare si trasformi in un ambito di apprendimenti significativi riguardanti la differenza tra i sessi (ci sono maschi e femmine), la distanza generazionale (ci sono adulti e bambini), la flessibilità nell’assunzione delle varie funzioni familiari (una funzione paterna può essere svolta da un figlio adulto nei riguardi di un genitore). «Per quanto si è soliti pensare che una famiglia si costituisca intorno agli scambi affettivi, in realtà può sopravvivere e crescere solo a partire da un certo numero di compiti da espletare» (Fischetti, 2003).
Tra i compiti essenziali di una famiglia, oltre a quelli affettivo-sessuali, procreativi, di sopravvivenza ed economici, si sottolineano i compiti educativi e sociali. Attraverso gli insegnamenti i genitori trasmettono non solo informazioni ai figli, ma anche modalità di apprendimento necessarie per avviare il processo di socializzazione. Attraverso l’accoglienza la famiglia affidataria lavora al ripristino di funzioni e vincoli variamente compromessi, svolgendo compiti e funzioni a cui i genitori naturali avevano abdicato. La famiglia affidataria può disporsi come uno spazio, un dispositivo adattivo e suppletivo transitorio di aiuto per il superamento di situazioni inaffrontabili per il bambino in quel momento e in quella famiglia in difficoltà.
Molto spesso le famiglie multiproblematiche in cui si rende necessario un intervento di affido sono famiglie pervase dall’indifferenziazione e dalla simbiosi patologica. Vi è confusione di ruoli tra genitori e figli, l’asimmetria generazionale è inesistente, così come domina la fantasia onnipotente dell’annullamento del passaggio del tempo (nessuno invecchia, i bambini non divengono adulti, non si accettano i passaggi del ciclo vitale).
La problematica dell’onnipotenza, che si traduce nell’incapacità di sopportare i limiti educativi e psicologici necessari per la crescita della personalità, produce un’impossibilità, espressa a volte attraverso i sintomi, di elaborare l’ansia depressiva (Pichòn-Riviere, 1986) abitualmente presente in ogni sviluppo o cambiamento umano.
L’affido familiare si può collocare in questa prospettiva di recupero di funzioni genitoriali compromesse nella simbiosi patologica: attraverso una famiglia affidabile e quindi affidataria viene proposto al minore uno spazio gruppale familiare per l’avvio di un processo di elaborazione di vissuti deprivanti, potenziando ed incentivando le esperienze positive.
Per la famiglia d’origine il tempo dell’affido assume il significato di una prognosi, di una previsione dei tempi necessari affinché la famiglia possa recuperare ed elaborare le funzioni genitoriali carenti o non sviluppate.
Assumendo questa ottica, nell’affido, il minore non tutelato è l’emergente di una situazione familiare in cui i suoi sintomi di disagio e le trascuratezze sono collegati e prodotti dalla sua struttura familiare: il bambino rende esplicita la difficoltà del gruppo familiare e lui stesso inconsapevolmente segnala ciò che altrimenti non avrebbe trovato espressione. Ecco perché il compito dell’affido non può considerarasi espletato solo con lo spostamento del minore da un contesto familiare problematico ad una famiglia funzionalmente più adeguata, ma abbisogna di un raffinato contributo interpretativo da parte degli operatori affinché il minore non risulti un depositario (E. Pichòn-Riviere, 1986) espulso delle ansie del suo gruppo familiare e contemporaneamente un Messia (W.Bion, 1980 ) per la famiglia affidataria. Spesso i bambini delle famiglie multiproblematiche diventano i depositari di angosce e conflitti familiari non risolti da generazioni, per cui si rende necessario un intervento, anche di tipo psicoterapeutico, all’interno del gruppo familiare che include il minore in difficoltà.
Alla luce di quanto affermato se la segnalazione di un minore da tutelare va considerata come un emergente di una conflittualità non risolta all’interno del suo nucleo familiare, la richiesta di affido da parte delle famiglie che si candidano a questo compito va intesa come l’emergente di un gruppo che si trova di fronte ad un nuovo passaggio, ad un momento della sua storia, in cui si esplicita un bisogno di riconoscersi come risorsa viva e creativa.
Con le coppie e le famiglie affidatarie ci si chiede di che natura sia la motivazione all’affido e si approfondisce il livello di coinvolgimento gruppale ed individuale nella richiesta esplicitata.
Ci si chiede se sia frutto di una resistenza nell’acquisizione di nuovi ruoli e funzioni familiari (non riconoscimento del passaggio del tempo attraverso la richiesta di un bambino da accudire per sentirsi, per sempre, genitori di un bambino piccolo da proteggere), oppure se l’esigenza di accogliere un minore riempia un lutto non elaborato nel nucleo familiare (la perdita di un figlio proprio, una genitorialità mancata, ecc.), ci si interroga se tale richiesta sia frutto della frustrazione o della riparazione creativa, se sia segregata e depositata in un unico membro della famiglia o se sia condivisa e quanto venga influenzata da ansie inconsce di perdita, persecutorie o confusionali.
Per mezzo di questa elaborazione, in cui possono emergere storie di coppia e familiari attraversate da lutti e conflitti, come è naturale che avvenga in tutte le storie umane, è necessario accertare che le conflittualità non superino un quantum di ansietà, oltre il quale si entra nel disagio e nelle difficoltà. Attraverso l’approfondimento delle capacità familiari e di coppia nel superamento delle diffficoltà della vita si schiude il livello emozionale ed elaborativo. Si discrimina un piano manifesto, che viene esplicitato dalla richiesta di affido, facendo emergere un livello più implicito, latente che si configura come domanda di affido.
Ancora ci si chiede se la domanda di affido sia sintomale e cioè corrispondente ad un sintomo familiare, di cui latentemente si nega la conflittualità. Anche l’affido, infatti, può essere un «sintomo della salute» (M. De Brasi, 1992) che se a livello manifesto può essere espressione di una situazione positiva e creative, a livello latente può corrispondere ad un occultamento, spostamento o condensazione di criticità familiari inespresse. Viceversa una domanda di affido asintomale si manifesta come effetto di una corrente affettiva creativa e trasformativa della famiglia, che vuole sperimentarsi con le sue qualità di depositario affidabile.
Il gruppo affidatario, incluso l’affidato, per giungere ad una integrazione dovrà attraversare un processo che comporta l’elaborazione di tre tipi di ansie, sempre presenti nelle vicissitudini di tutte le dinamiche gruppali, familiari e non.
L’ansia confusionale riguarda il particolare clima provocato dal sentimento di non avere strumenti per affrontare il compito e la nuova situazione. Nel caso dell’affido le coppie e le famiglie raccontano il loro disorientamento, l’impaccio, la difficoltà di comunicazione connesse alle prime fasi dell’affido, con il presentarsi di situazioni nuove ed impreviste cui far fronte. Il vissuto riferito è quello di sentirsi sprovvisti, nudi di fronte alla nuova quotidianità con un figlio affidato. Si avverte che la pregressa esperienza di genitori non è più sufficiente a fronteggiare lo sconosciuto. Bisogna trovare nuove strategie. Tutti sono incerti, vi è confusione tra la situazione di prima e l’attuale, ci si interroga sulla propria motivazione e ciascuno pensa, in proprio, di avere una soluzione e presuppone che gli altri familiari la condividano (iniziale indiscriminazione io/altro, vincolo narcisistico).
L’ansia persecutoria fa riferimento ad un clima di paura di essere attaccati per quello che non si riesce a fare, pensando di essere per questo giudicati. Il senso di colpa e la relativa ostilità sono i sentimenti più marcati di questa fase. Negli affidi questa situazione si evidenzia quando gli affidati attraversano periodi di conflittualità e gli affidatari sviluppano un sentimento di colpa inconscio, che si esplicita attraverso attacchi alla famiglia di origine o timore di essere rimproverati dagli operatori per le difficoltà che si incontrano. Nelle famiglie cresce la litigiosità per l’esplicitazione dei diversi punti di vista e tra i figli possono comparire rivalità e gelosie. Vi è un sentimento diffuso di preoccupazione e di sospettosità (inizio della rottura del vincolo narcisistico).
L’ansia depressiva connota una situazione gruppale in cui vi è il riconoscimento del fatto che non si può fare tutto da soli e che è necessario lavorare insieme, accettando le differenze. Inizia la consapevolezza di aver avviato una nuova esperienza, di essere un nuovo gruppo familiare. E’ la fase dell’integrazione, la famiglia affidataria riconosce i propri limiti, supera aspettative onnipotenti e salvifiche, accetta i ritmi e le libertà dei singoli componenti. Collabora più attivamente con gli operatori con una aumentata consapevolezza che la realizzazione dell’affido ed il benessere dell’affidato sono frutto di una ricerca congiunta, dove non sono utili le contrapposizioni e gli stili appropriativi (rottura del vincolo narcisistico ).
Durante l’osservazione delle famiglie ci si accorge che i tre tipi di ansie non si presentano in una successione lineare, ma si alternano, si intersecano, si ripresentano nel corso del processo gruppale in un andamento, direbbe Pichòn-Riviere, a spirale dialettica. Nell’elaborazione di un compito, infatti, e quindi anche per l’affido, si alternano fasi in cui «per andare avanti nel compito, bisogna tornare indietro» nel senso che si possono incontrare difficoltà e resistenze, che comportano una regressione del livello di sviluppo e di integrazione della famiglia affidataria.
Naturalmente non si tratta di tornare costantemente al punto iniziale dell’elaborazione, ma di ripartire a vivere vicissitudini dell’affido con maggiori strumenti e con un nuovo livello di consapevolezza e di complessità!

Pedro è un ragazzo di sedici anni e frequenta la prima superiore. Giunse due anni fa in Italia dall’Ecuador. Un prete salesiano, di una piccola missione vicino a Quito, lo aveva fatto salire in un aereo di linea e gli aveva detto che al suo arrivo ci sarebbe stato ad attenderlo Luca, un volontario di trent’anni, con cui lui era in comunicazione da tempo.Pedro veniva in Italia con il  sogno di cambiare la sua vita, ma soprattutto voleva correggere una malformazione che lo rendeva lievemente  claudicante dalla nascita.
Dal momento del suo arrivo sono stati necessari alcuni delicati interventi chirurgici per superare la zoppìa. La famiglia che lo accoglie in Italia è composta da due genitori anziani, padre e madre di Luca, e da altri due figli, di cui una sposata, reciprocamente sorella e fratello di Luca. L’affidatario di Pedro è nominalmente Luca che vive, comunque, in famiglia e lavora nell’azienda familiare. Una grande casa in campagna accoglie Pedro, anche la sorella sposata vive accanto alla sua famiglia e diviene un riferimento per il ragazzo che la considererà a tutti gli effetti una sorella, mentre tratterà sempre Luca come un fratello maggiore. Saranno «i nonni», i genitori di Luca, gli elementi della famiglia verso cui Pedro manifesterà maggiore deferenza e rispetto e con cui stabilirà una corrente di affetto calda e tenera. Con Luca combatte le battaglie più dure: quelle delle regole, dello studio, della libertà negli orari e nelle amicizie. Molte volte quando si rivolge all’affidatario pare acquistare un tono paterno e quasi protettivo: descrive la sua vita a Quito improntata alla massima libertà e considera assolutamente incongrue le preoccupazioni di Luca, in quanto lui ha abilità superiori, dice, visto che si è sempre orientato da solo nella favela e nella città dove spesso fuggiva con altre decine di bambini ai vigilantes armati!
Luca accetta la “ protezione“ di Pedro e la sua diversa maturità in rapporto all’età cronologica dei suoi compagni italiani, ma ugualmente insiste per offrirgli un’istruzione, lo inserisce nella comunità del suo paese di campagna, lo avvia ad attività sportive e di gruppo e lo sostiene durante le ospedalizzazioni per i frequenti interventi chirurgici. Lentamente in questi due anni una gamba è diventata uguale all’altra e Pedro ha ripreso gli allenamenti sportivi ed ha iniziato un corteggiamento serrato delle ragazzine che gli ronzano intorno numerose data la sua prestanza fisica. Luca, peraltro, è maturato nelle sue capacità affettive ed ha acquisito una motivazione in più per vivere una vita opulenta che però, prima, non conteneva sfide! La reciprocità affettiva articola ogni affido familiare: i vincoli che si instaurano non sono mai unilaterali, si sviluppano alimentandosi a vicenda attraverso un’inesauribile spirale di pensieri, sentimenti ed emozioni.
Improvvisamente Pedro ad un colloquio con gli operatori ed alla presenza di Luca chiede di poter tornare a casa, avverte un forte desiderio del suo Paese, lo descrive come un «richiamo irresistibile».
Lui qui sta bene, non ha motivi di lamentela, ma vuole tornare in Ecuador. La sua infanzia segnata dalla precarietà lo ha spinto precocemente verso un’adolescenza già piena e consapevole. Vuole tornare a casa perché ha lasciato la madre ed i fratelli e la sua coscienza di giovane emigrante si risveglia: forse a casa qualcuno ha bisogno di lui, forse la nostalgia della sua terra lo raggiunge attraverso il ricordo dei primi affetti. Pedro è in conflitto, la famiglia italiana gli ha dato tanto, sa che, andandosene, lascerà un vuoto e qualcuno ne soffrirà: sa che qui in Italia ha dei nonni, dei fratelli più grandi, sa che di loro si può fidare.
In questi anni si è sempre mantenuto in contatto con la madre, ha ricevuto sue foto, ma la nostalgia è forte e persistente: vuole tornare in Ecuador!
In Pedro la doppia appartenenza  è palese. La sua identità è attraversata dall’amore per due famiglie, dalla lealtà verso due case, Due Paesi, due culture, due appartenenze che non si possono più spezzare né scindere. Non si possono alimentare in Pedro due anime, né mettere in contrapposizione due stili di vita decidendo arbitrariamente quale sia il più significativo. La tentazione di teorizzare una vita migliore nei Paesi meta dell’emigrazione è sempre in agguato, tuttavia si deve tener presente che, comunque, la prima necessità per un minore è di mantenere una visione ed un rapporto dignitoso con le prime figure rappresentative della sua vita alle quali rimangono vincolati sentimenti quali l’autostima, l’immagine di sé, il sentimento di sicurezza e l’amor proprio.
Così la famiglia affidataria, non senza dolore, ma in assenza di biasimo, decide di riaccompagnare il ragazzo in Ecuador tutelandone il viaggio e garantendo la continuazione degli studi in una scuola di una città vicino alla capitale. Luca parte con Pedro consapevole che una vera funzione genitoriale deve permettere la separazione, il distacco e la possibilità di  prendere un tempo ed uno spazio  per la riflessione che ogni adolescente tenta di assumere, nella ricerca del proprio destino.
Gli accordi prevedono che Luca si fermi una settimana, accompagni Pedro dalla madre e poi riparta lasciando libero il ragazzo di decidere.
Tre mesi dopo il viaggio agli operatori arriva una cartolina di saluti firmata da Pedro. Scrive: a presto!
Lui stesso racconterà più tardi che dopo essere stato dalla madre e dopo averle fatto vedere che non zoppicava più aveva deciso di ritornare in Italia. Pedro era dovuto tornare dalla madre, dai fratelli, dai suoi amici per mostrare loro la sua gamba divenuta perfetta e, nel medesimo tempo, voleva vedere come loro erano diventati, per lenire quel lieve, ma penetrante, senso di colpa per averli abbandonati ad un destino ingrato ed insoddisfacente.
Pedro racconterà di una madre in salute, contenta di lui ed anche di sé stessa, di un fratello sposato e di altri fratellini figli di un altro uomo della madre. La sua narrazione si snoda nel piacere di ritrovarsi senza aver  tradito le aspettative del mandato familiare di guarire e di farsi un avvenire: ciò lo ha reso sicuro e libero di poter decidere di ritornare in Italia. Pedro frequenta una scuola superiore e conta di diplomarsi.
Non è escluso che tra qualche tempo vorrà tornare in Ecuador, magari per stabilirsi definitivamente, oppure sceglierà di rimanere in Italia e farsi raggiungere da un familiare…intanto la famiglia affidataria e l’Italia sono diventati per lui un punto di riferimento.

 Il seguente materiale è tratto da una seduta di gruppo operativo con coppie affidatarie con un affido in corso. Il gruppo si incontrava da circa tre mesi ed avrebbe terminato il suo percorso dopo un anno di attività, in cui gli incontri avevano una cadenza quindicinale. Le coppie presenti in questa seduta sono quattro, una componente è venuta al gruppo senza il partner ed una coppia è assente per motivi di lavoro.
E’ presente un coordinatore di gruppo ed un osservatore non partecipante.
Il compito del gruppo è parlare della situazione di affido che stanno vivendo e di tutto ciò di cui vorranno parlare, il tempo della seduta di gruppo è di un’ora e quarantacinque minuti.
Maria parla di Giulio, il ragazzino in affido di 11 anni, e racconta di un tema che lui ha svolto a scuola sull’amicizia in cui il contenuto doveva trattare il seguente argomento: che cosa do agli altri e che cosa mi aspetto che gli altri mi diano. Maria afferma: «Quando ho letto il tema ho capito che Giulio ha un grande piacere di stare con gli altri ma una stima di sé bassissima. Ha un amico del cuore, è sempre con lui. Dice che ha paura di diventare appiccicoso».
Carlo interviene e parla di Cristian, il bambino di 8 anni in affido: Anche lui piano, piano sta aprendosi agli altri, ha perso l’aspetto triste ed isolato….»
Eugenio, che ascolta in silenzio, improvvisamente introduce un argomento diverso ed apparentemente slegato dal contesto: «Eleonora, da quando frequenta le scuole medie, ha una cartella pesantissima che poi deve portarsi da una casa all’altra dato che lei è in affido diurno! »
Il gruppo improvvisamente si anima e discute con passione degli sforzi dei ragazzi nel portarsi sulla schiena queste cartelle, qualcuno suggerisce l’uso del carrellino, altri descrivono come i figli si siano messi d’accordo con i compagni di banco per dividere il peso a metà e lentamente questa conversazione sul peso dei libri scivola sulla intensità e durezza del loro compito di affidatari.
Elisa: «Noi siamo impegnati ventiquattro ore su ventiquattro come radio D.J. , ma Eleonora ha buoni risultati questo anno».
Nicoletta: «Anche sulle piccole cose non bisogna abbassare la guardia. Mi pare- rivolta a Maria- che Giulio sia un ragazzo più facile di Federico….»
Maria non replica, ascolta Olga che fino a quel momento non aveva parlato: «Noi siamo ancora in alto mare con David…è difficile comunicare con lui – guarda il marito – è uno stress non indifferente»
Maria: «In Giulio c’è un desiderio di normalità, telefona se può restare fuori casa, ha piacere di chiedere, si è preso una sgridata per un ritardo ed una piccola bugia detta. Punto sul fatto che lui si fortifichi che diventi famiglia per sé stesso, che non sia passivo. Il dolore non si può risparmiare a nessuno, il sole alla mattina sorge lo stesso!»
Bruno con espressione intensa e parlando lentamente: «Isabella lotta in continuazione con sua madre, insiste per vederla, per non saltare gli incontri. Le dice:Non ti importa niente di me. C’è l’operatore che gestisce l’incontro. La mamma non dà risposte e Isabella le vuole!».

L’ipotesi interpretativa dell’équipe di coordinazione (coordinatore ed osservatore non partecipante) è la seguente: il gruppo avverte che anche il compito dell’affido mano a mano che procede diviene più consistente, più pesante, come le cartelle dei ragazzi. I presenti si chiedono se nello spazio del gruppo potranno condividere con noi operatori il peso dei conflitti e, come i compagni di banco, condividere le esperienze, aiutarsi e parlare anche delle loro paure e delle loro conquiste”.


 

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